La Tre Cime Alpine Marathon è una gara in montagna di 21 km che impone di coprire 1500 metri di dislivello, dai 1300 metri circa di Sesto Pusteria fino ai 2400 e rotti del rifugio Locatelli, sotto le Tre Cime di Lavaredo. Poi, una volta tagliato il traguardo, tocca scendere a piedi per altri mille metri di dislivello.

“Ha!” ricordo di aver detto tempo fa “tanto io mi alleno sui Colli Euganei”.
Dimostrata per l’ennesima volta la mia demenza senile a soli 37 anni, passo a raccontare le vicende di gara.
8-900 partenti nel sole, e via, attraverso Sesto Pusteria, dove siamo stati accolti e coccolati nella pensione dei signori Gruber: altamente consigliata!!!

Si tiene tutti botta bene, le inclinazioni sono clementi e più o meno tutti corrono fino all’ottavo chilometro. Qui la pendenza si fa sostenuta, la strada si stringe, e chi se l’era presa comoda, il mio gruppo, va al passo - veloce ma al passo.

Tempo dieci minuti e tutto si fa chiaro: sarà sempre peggio fino al rifugio Comici, e anche più in là. Una salita infinita che fra la gente e le rocce ti costringe a fermarti (facendo cenno dietro, come in bici) se vuoi ammirare il paesaggio. Cosa che io faccio, anche perché ho avuto la bella pensata di portarmi dietro una macchina fotografica usa e getta e fare per Triathlete un pezzo un po' diverso. La scelta delle inquadrature è dettata dai tratti più ripidi che mi imponevano di rifiatare, fra le foto c’è quindi poco della pura bellezza che i partecipanti hanno potuto ammirare! Paesaggi lunari, canyon del West, gli ultimi scorci d’erba prima dei 2000 metri e del sottile capogiro che li annunciano, come sempre. Ossigeno: poco. Chiacchiere: zero. Le voci che si levano sono quelle degli escursionisti, che ci incitano a correre mentre noi li inciteremmo volentieri a svuotare gli zaini e a darci le loro scorte di carboidrati.
Ai rifugi scopro che pur avendo caldo per lo sforzo, caldo non è per nulla: mi “vedo” il respiro, ok, ma gradisco grandemente la cosa per me più insulsa da bere, L’ACQUA CALDA!

Per farla corta, al rifugio Monte Cengia comincia l’unica discesa degna di tal nome, e io mi riprendo da un mal di piedi feroce. I Colli sono ripidi, ma le rocce fanno la differenza, Maurino! Cento metri di assestamento e vengo giù come una bestia, sorpassando con le mie scarpe da raid tutti quelli partiti con scarpette da corsa su strada, che al massimo vengon giù a passettini, per non massacrarsi.

Ci sarà un altro salitone, prima della fine, quindi decido di godermela. Canto qualche canzone, mi pare tre, ma poi la discesa finisce. Un po’ di falsopiano, e poi ci sono tre km di salita che non scorderò facilmente. Ad un certo punto anche camminare è un’impresa. La rampa del garage è un praticello invitante, al confronto di certi tratti, però la gente tira fuori la voglia, e anche la forza di scambiare una battuta, non appena si supera il fatidico “ Ma perché cavolo sono qui, che devo dimostrare!?!” Realizzo di colpo che le donne sono presenti in percentuale maggiore rispetto alle mezze e alle maratone in pianura. Forse dipenderà dal fatto che molte provengono dall’estero (Germania, Svizzera e Austria), dove magari ciò è normale.

Comunque sono felice di esser lassù, anche se con un debito d’ossigeno che sembra un mutuo trentennale.

Arrivo ad un punto dove quasi mi preoccupo. Il sentiero tira, i crampi sono vicini e non mi sento quindi di fermarmi anche se fatico solo a camminare. Il cuore è praticamente nei capelli quando davanti a me vedo una colonna di roccia rossa spuntare da alcune nuvole. E’ grande, pressoché circolare, davanti ad altri spuntoni di roccia enormi. Che sarà mai? Così rotonda, non sarà una visione distorta? Cerco di tranquillizzarmi: non sono ancora alle allucinazioni, su.

Il sentiero gira, e dopo neanche trecento metri mi rendo conto che quell’apparizione tra le nubi altro non era che una delle Tre Cime, vista da un lato che conosco poco.

Ci siamo quasi! Penserete che io abbia pensato. Anch’io...

Invece mi balena davanti agli occhi un’infanzia passata ogni estate tra i monti, a fare escursioni con il mio papà, sempre preoccupato per la mia agilità camoscesca e i suoi chili di troppo.

Le Tre Cime sono state le mie montagne di bimbo, i colossi della mia immaginazione infantile, il panorama per eccellenza delle mie villeggiature in Cadore.
Ora, le stavo raggiungendo da un lato che non conoscevo ancora, ma erano sempre loro - neanche il tempo di pensare alle risate con papà ed avevano già cambiato colore, ‘ste filibustiere.

Ero commosso. Ormai ero al loro fianco, vedevo sotto di me il rifugio Lavaredo con le auto e riconoscevo il pulmino stampa con il quale Marcella è salita fino a lì, per poi raggiungere l’arrivo.

Questi sono i momenti nei quali le energie ritornano, e la fatica sparisce come d’incanto... E invece io avevo sempre mal di piedi, e per tener la testa dritta dovevo ripetermelo dieci volte.

Ma stavo ritrovando ricordi di me bambino che stavano un po’ sfumando, e li ritrovavo vivissimi: la mia impressione che un’infanzia a scarrozzare sulle Dolomiti fosse stata la mia prima base atletica era ormai una certezza.

Ero ormai sull’anello che gira intorno alle Tre Cime, falsopiano e discesa.

Una cartello mi indica addirittura il ventesimo km e mezzo: mi chiedo perché ma poi lo capisco alzando gli occhi verso il rifugio: per raggiungerlo ci saranno i 500 metri più lunghi, da arrampicarsi con le mani con tanto di alpini a regolare il traffico di escursionisti vestiti in pile e Goretex e di podisti in manica di mutande – e ancora avevamo caldo.

Gli ultimi sei passi sono un trionfo: di corsa e pieni di applausi. Ma il vero trionfo per me sono le torte! Mi strafoco ben bene – dieta a zona: solo specialità del luogo – mi cambio sotto la tenda militare e mi godo le Tre Cime non so se per un minuto o per un’ora. Sono proprio in un’altra dimensione, sto bene, sto con me.
Penso al mio papà, e a come sarà felice quando gli racconterò tutto.
Penso a Marcella, e a quanto le voglio bene.
Penso anche a quel poveretto che nella tenda medica sembra più di là che di qua, e tutto acquista proporzione umana, reale.

A riportarmi su altri piani, mentre imbocco il sentiero del ritorno, è un prete che dice messa sotto una grande croce. Molti sono i podisti che assistono alla funzione.
Il prete parla di affetti con voce calma e profonda.

E’ Franco Torresani, di Telve, in Valsugana, quarto assoluto e primo degli italiani in gara. “Devo ancora dir messa nelle mie tre parrocchie” dirà scappando verso Sesto.

Quanti modi per toccare il Sesto cielo!

IronMauro

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