Un pallone tra le bombe (3 aprile 2003)

Riprendiamo un articolo di Alberto Piccinini apparso su il manifesto del 2 aprile 2003.

Sono state davvero scarne le cronache della soprendente partita di calcio giocata venerdì scorso a Baghdad, sotto le bombe. Si affrontavano l'Al Zawraa - la squadra più popolare della capitale - e il Samarra. Ha vinto, poco sorprendemente, l'Al Zawraa con un 3-0 che (come si direbbe in questi casi, a qualsiasi latitudine) non ammette repliche. Cinquemila gli spettatori presenti - tutti uomini come sempre accade negli stadi irakeni, molti dei quali in divisa, e parecchi bambini - certo un po' sperduti tra i cinquantamila posti che pure erano stati offerti gratuitamente dal boss della federcalcio irakena Uday Hussein (normalmente i biglietti costano tra i 50 cent e il dollaro). Il corrispondente della France Press ha sottolineato con un po' di sconcerto l'azione del terzo gol: un tiro secco del centravanti Hassam Fawzi a due passi dal portiere, che ha sfruttato a dovere lo smarrimento dei
difensori provocato dal boato di una bomba caduta a due passi dall'impianto sportivo.

Il campionato iracheno, disputato da venti squadre (la gran parte delle quali sono di Baghdad), ufficialmente non si è ancora fermato. Si è giocata interamente la ventisettesima giornata tra il 13 e il 14 marzo. Il 21 marzo risultavano disputate almeno due delle partite della ventottesima giornata: Al Quwa-Al Jawirya (la «squadra dell'aviazione»)-Najaf 1-0 e Bassora-Al Zawraa 1-1 (il Bassora è ultimo in classifica). Due settimane fa, inoltre, i campioni in carica dell'Al Talaba (la «squadra degli studenti») avevano disputato a Taskent (Uzbekistan) un incontro valido per il girone eliminatorio della Champion's League asiatica.

In regime di no-fly zone e col divieto della Fifa di giocare partite
internazionali in Iraq, ogni trasferta è una vera odissea: 13 ore di pullman da Baghdad a Damasco, 4 ore di volo per Mosca, 13 ore di attesa in aeroporto e 3 ore e mezzo di volo per l'Uzbekistan. Ma ne è valsa la pena: Al Talaba ha sconfitto gli avversari del Nisa (Turkmenistan) con un rotondo 3 a 0. In quell'occasione, c'è stato spazio anche per la polemica. L'allenatore dell'Al Talaba, Rahim Hamed, ha infatti seccamente smentito Bernard Stange, l'ex ct tedesco della nazionale irachena che ha abbandonato da qualche settimana il paese, negando che i suoi calciatori sarebbero stati in alcun modo richiamati alle armi. Perché giocare a calcio in tempo di guerra è quasi sempre questo: una orgogliosa (spesso incosciente) rivendicazione di normalità. Ma anche - ed è paradosso tutto calcistico, quest'ultimo - il suo esatto contrario. Ben altre, infatti, erano state le voci raccolte da un cronista del Guardian presente due mesi fa all'incontro tra l'Arbil (uno dei tre club kurdi ammessi senza troppi problemi al campionato irakeno) e Al Nafad (la «squadra del petrolio»). Mentre sugli spalti per tutta la partita erano risuonati slogan pro Saddam e anti-Turchia, diversi giocatori dell'Al Nafad avevano apertamente dichiarato che in caso di guerra si sarebbero immediatamente uniti ai feddayn di Uday Hussein.

Il figlio del dittatore - capo del comitato olimpico e della federazione calcistica, direttore del quotidiano sportivo Al
Baath-Al Riyadhi, oltre che presidente dell'intera associazione dei giornalisti - ha in questo momento un ruolo che per certi versi assomiglia a quello del serbo Arkan e dei suoi ultrà della Stella Rossa di Belgrado, trasformati in sanguinari combattenti ai tempi della pulizia etnica. In più, Uday è stato spesso al centro di denunce da parte di ex calciatori iracheni riusciti fortunatamente a fuggire in Europa. Sharar Haydar, che giocava per l'Al Rashid (la squadra personale di Hussein figlio, sciolta nel 1991), ha raccontato delle terribili torture cui veniva sottoposto assieme ai suoi compagni nel caso che le sue prestazioni sul campo non fossero state giudicate all'altezza. Ha
raccontato anche dei vezzi da presidente-padrone di Uday, capace di convocare tutta la squadra per una partitella
pomeridiana nella quale tutti dovevano passargli la palla e farlo segnare; o di far ritardare l'inizio delle partite ufficiali di campionato fino al suo arrivo, in elicottero e direttamente sul campo di gioco.
Un altro ex calciatore, l'olimpionico Saad Qeis (oggi giornalista sportivo a Londra per il sito www.Iraqsport.com) ha ricordato l'incredibile supplizio cui furono sottoposti i giocatori della squadra che fallì le eliminatorie per il mondiale del 1994, chiusi in una prigione e costretti a dar calci a un pallone di pietra sotto la minaccia dei guardiani. Ma né la Fifa, e neppure il Cio, sono mai riusciti a dar corso a queste denunce. Uday Hussein è rimasto ben saldo nel suo personale palazzo con tanto di galere sotterranee, e il rosario di sconfitte patite dalla nazionale irachena in tutte le eliminatorie delle ultime competizioni internazionali, da questo punto di vista, assume una luce a dir poco sinistra.

L'ultimo titolo calcistico vinto dall'Iraq risale a ben prima dell'arrivo al potere di Saddam Hussein, e questo - per un regime - non è certamente un buon segno. La situazione, tuttavia, ha avuto un significativo cambiamento negli ultimi due anni. Nel 2000 la nazionale under 20 allenata da Ammo Baba (una vecchia gloria del calcio irakeno) ha vinto il torneo della federazione asiatica, la cui fase finale si è svolta - significativamente - a Teheran, con l'Iran battuto in semifinale. L'impresa si è poi ripetuta l'anno successivo, quando l'Iraq ha vinto anche il più ristretto torneo della Waff (West Asia Football
Federation), disputato in Siria. Allora si è cominciato a parlare di rivincita della generazione perduta. Calciatori nati negli anni ottanta, nel profondo della guerra Iran-Iraq, che avevano dovuto fare i conti con altre guerre, con l'embargo, con la mancanza di tutto e la impossibilità quasi totale di muoversi fuori dal paese, sono improvvisamente diventati importanti ed eccessivi come solo i simboli calcistici sanno essere. Come il centravanti Razat Fahran o il portiere Nour Sabri (finiti nel mirino, dicono, di alcuni osservatori italiani: in Iraq un calciatore
guadagna non più di 200 dollari al mese se non riesce a emigrare nelle più ricche squadre del Qatar o del Libano).

E come Nashrat Akram, ventenne trequartista dell'Al Shorta (la «squadra della polizia»), mattatore della finale del 2000 vinta 3-2 con la Giordania, idolo dei ragazzi (e delle ragazze) di Baghdad. «Molti paesi, dopo una settimana di guerra, avrebbero smesso di giocare a calcio - ha detto una volta Nashrat - Noi siamo andati avanti per undici anni».

Il 5 aprile l'Iraq avrebbe dovuto affrontare il Vietnam, in un incontro valido per le eliminatore del torneo calcistico dei prossimi giochi olimpici. La partita, dalle incredibili valenze storico-politiche, è stata rinviata dalla Fifa a data da destinarsi.

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